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Luca Crivellari
Storia di uno studente-allenatore

«In Italia ero nel giro della Serie D, con il San Paolo Padova. Poi ho giocato in Promozione e in Prima categoria e, intanto, studiavo all’università. Quando ho sentito di Yes We College, dell’opportunità di andare a studiare negli Stati Uniti con una borsa di studio, ho pensato non tanto alla parte calcistica, ma a quella accademica: “Sai cosa? Sarebbe interessante se riuscissi ad ottenere una laurea americana”. Ero al mio terzo anno di università in Italia e mi mancava solo la tesi di laurea, ma ho deciso di partire comunque, dopo aver ricevuto un’offerta dalla William Wood University. Anche se il mio curriculum accademico era diverso e avrei dovuto frequentare altri corsi, mi sono detto: “Voglio laurearmi in America”».

Luca Crivellari nasce il 13 marzo 1996. Da sempre, la sua passione è il calcio. Giocato e allenato. Dopo alcune esperienze sui campi del Nord Italia, che lo portano fino alla Serie D, decide di cogliere l’opportunità presentatasi con Yes We College e di partire per gli Stati Uniti, per andare a studiare oltreoceano ed entrare nel mondo del soccer statunitense. Dalla sua Padova, sceglie di trasferirsi nel Missouri, a Fulton, per studiare alla William Woods University e laurearsi in Comunicazione, continuando nel frattempo a coltivare la sua passione, il calcio, da studente-atleta.

At the Yes We College Showcase
William Wood University

«Quando sono partito non avevo grandi aspettative a livello calcistico, anche perché la mia idea era quella di andare negli Stati Uniti e laurearmi. Una volta che sono arrivato alla William Wood, una squadra da top-20 del campionato Naia, però, ho capito che alla fine in America c’è tutto il mondo, e che tutto il mondo è in America per giocare a calcio. Avevo compagni di squadra che arrivavano da tutta Europa, ma anche dal Sudamerica: c’era chi aveva fatto le giovanili nel Real Madrid, chi era cresciuto nel vivaio del Feyenoord e chi aveva giocato come professionista. Negli Stati Uniti il livello negli ultimi anni si è alzato. E si alzerà sempre più: è questa la rotta. Ovviamente, la più grande differenza rispetto all’Italia è che qui, prima di essere un calciatore, devi essere un atleta. Ad ogni modo, una volta in America mi sono detto: “Onestamente, tanti di questi ragazzi potrebbero essere in Italia, a giocare in Serie C o in Serie D, e qualcuno potrebbe anche essere tra i professionisti”. Poi ognuno fa il proprio percorso: bisogna essere bravi, ma allo stesso tempo anche un po’ fortunati. Tuttavia, anche se è un po’ un cliché, per me la prima qualità che bisogna avere è l’etica del lavoro. Uno sbaglia se pensa di venire in America dall’Italia dicendo: “Io ho giocato in Europa, adesso sono qui e faccio quello che mi pare”. È un altro mondo: c’è un’altra struttura, un ambiente diverso e una cultura differente. Ti devi abituare, per esempio, a svegliarti alle sei del mattino, oppure ad andare in palestra tutti i giorni e poi a scendere in campo: ci sono cose che non tutti abbiamo visto quando giocavamo in Italia».

Le differenze tra il calcio italiano e la realtà del soccer universitario statunitense sono molteplici. Alcune possono essere difficili da comprendere. Altre, invece, sono chiare sin dal primo giorno.

«Un’altra grande differenza tra il calcio italiano e quello collegiale negli Stati Uniti è legata alla cura e agli investimenti. Alla fine, tu arrivi in America e, una volta qui, l’unica cosa a cui devi pensare è giocare a calcio e a studiare all’università. Io non dovevo preoccuparmi, ad esempio, di come andare a una partita, oppure di dove sarei dovuto andare a mangiare, o di qualunque altra cosa. In un certo senso, ti fanno sentire un professionista, ti mettono nelle migliori condizioni affinché tu possa eccellere. È quella la grande differenza. Faccio un altro esempio, magari stupido: quando entri nella squadra dell’università, ti danno un paio di scarpe da calcio. In Italia, a meno che tu non abbia uno sponsor, devi andare in un negozio e comprartele, oppure le ordini su Internet; negli Stati Uniti, invece, al tuo primo giorno ti fanno trovare scarpe, magliette, pantaloncini e felpe, tutto di marca. Magari sono cose che nemmeno utilizzi, però intanto loro ti dicono: “Tieni, questo ti serve per rendere al massimo”».

A William Woods University, Luca diventa sin da subito una colonna portante della difesa degli Owls, la squadra del suo college. In due anni gioca ventisette partite, di cui ventisei da titolare, indossando anche la fascia da capitano. Al suo primo anno, viene nominato tra i migliori giocatori dell’American Midwest Conference. Nel 2019 si laurea e, nel frattempo, inizia a giocare nell’Ozark FC, una squadra semiprofessionistica locale, ma anche a fare le sue prime esperienze da allenatore.

Crivellari at Ozark
Crivellari at Ozark

«Alla William Wood University ho fatto due stagioni come studente-atleta, poi ho iniziato a lavorare: giocavo in una squadra di Usl e avevo cominciato ad allenare in alcune realtà giovanili della zona. Poco dopo che mi sono laureato, però, è arrivato il Covid, che bene o male ha interrotto tutto. Ma io avevo deciso: volevo continuare a fare l’allenatore. La mia fortuna è stata quella di conoscere il coach dell’Università dell’Arkansas, mentre giocavo nell’Ozark. Conoscendolo e parlandoci, mi ha detto che c’era una posizione aperta nel loro programma: “Guarda, se vuoi puoi venire come volontario”. In quel momento allenavo e Arkansas aveva uno dei migliori programmi calcistici negli Stati Uniti. All’epoca la squadra era tra le migliori otto della nazione e giocava in una delle conference più competitive d’America. Mi sono detto: “È la cosa giusta da fare”».

Dopo l’esperienza da studente-atleta e la laurea nel Missouri, è tempo di una nuova avventura, nel confinante Stato dell’Arkansas. L’opportunità è di quelle irrinunciabili: oltre a lavorare come allenatore nello Sporting Arkansas e nella Specialized Soccer Academy, con cui collabora con alcuni club giovanili, occupandosi dello sviluppo individuale dei ragazzi, Luca entra a far parte del coaching staff dell’Arkansas Razorbacks Soccer, la squadra dell’Università dell’Arkansas. Milita nella NCAA Division I, il massimo livello del campionato collegiale a stelle e strisce, ed è una delle più importanti realtà del calcio femminile universitario statunitense.

«Volevo continuare ad allenare a livello collegiale, così ho scelto l’Università dell’Arkansas. Loro avevano solo un programma di calcio femminile, perciò, dopo aver giocato e allenato nel contesto maschile, ho iniziato a lavorare in ambito femminile. C’è un’enorme richiesta di allenatori nel calcio femminile americano, per cui ci sono un sacco di opportunità. Negli Stati Uniti il calcio è il primo sport tra le ragazze, è come la pallavolo in Italia, è la prima scelta, insieme al basket e, appunto, al volley. In America, basta vedere i risultati della loro nazionale, il calcio femminile è parecchio sviluppato. È molto seguito: all’Università dell’Arkansas ogni venerdì sera a vedere le partite c’erano tra le 2.500 e le 3.500 persone tra tribune e bordo campo; nelle università più grandi i numeri sono pure maggiori. Le opportunità sono enormi, più che nel settore maschile, banalmente perché in Division I ci sono circa trecentocinquanta programmi femminili, mentre quelli maschili sono meno di duecento. E poi, a livello di strutture, campi e staff tecnico, il programma calcistico dell’Università dell’Arkansas non ha niente da invidiare alla Serie D: quando giocavo in Italia c’erano l’allenatore e un paio di vice, poi il fisioterapista e il magazziniere, cinque persone; in Arkansas, invece, a seguire la squadra femminile, per una rosa di venticinque o trenta calciatrici, eravamo uno staff di dodici persone. E quello fa la differenza. Magari, all’inizio, il calcio femminile non è stata la mia prima scelta, ma una volta che ci sono entrato, e ho visto come funzionava il mercato negli Stati Uniti, mi sono detto: “Sì, questo è quello che voglio fare. E qui è dove voglio rimanere”. Poi, devo dire, sono stato molto fortunato, perché quando ero ad Arkansas hanno selezionato tre calciatrici per giocare nei professionisti: adesso sono nel campionato ed è bello vederle in televisione, è motivo di orgoglio e soddisfazione».

Nell’esperienza a Fayetteville, come assistente allenatore ad Arkansas University, Luca si occupa sia dello sviluppo atletico delle calciatrici che dello sviluppo tattico, oltre che dell’analisi delle partite. E per le Razorbacks è un’annata memorabile: la squadra trionfa nella propria conference, in cui resta imbattuta, arrivando fino ai quarti di finale a livello nazionale, dove viene beffata ai rigori dalle Scarlet Knights di Rutgers University. Ben quattro giocatrici di Arkansas vengono incluse nella prima squadra del torneo e non mancano altri premi individuali.

Arkansas celebrating the conference win
The Arkansas University's conference trophy

«Sono rimasto all’Università dell’Arkansas per un anno e mezzo. Dopo che abbiamo vinto il titolo della Conference e siamo arrivati fino alle Final Eight, ho iniziato a guardarmi attorno per cercare un’altra squadra in cui allenare e, contestualmente, iniziare un master. Così ho trovato una posizione a Texas A&M University-Commerce, dove poter allenare, ma anche continuare a studiare, per conseguire un master. Nello staff siamo in tre: coach Gordon, l’allenatrice, coach Morales, l’allenatore in seconda, e poi io. Faccio l’assistente e, in particolare, l’allenatore dei portieri».

A seguito del successo nello staff delle Razorbacks, il viaggio nel calcio statunitense prosegue nel Sud degli States, in Texas, dove diviene uno degli allenatori delle Lions, la squadra di soccer femminile di Texas A&M Commerce, formazione della NCAA Division I. Nel frattempo, Luca ha anche la possibilità di continuare gli studi, proseguendo nel proprio percorso accademico, non più come studente-atleta ma come studente-allenatore.

«La grande differenza tra essere giocatore o allenatore è che, nel primo caso, devi pensare solo a giocare e basta, mentre da coach sei chiamato a gestire venticinque persone, ognuna con il suo modo di pensare e la sua personalità. Questa è sicuramente una cosa a cui ho dovuto adattarmi. Altre sono legate al passaggio dal contesto maschile a quello femminile: ci sono differenze, dentro e fuori dal campo. Una cosa che noto, ad esempio, è che le calciatrici cercano sempre di fare gruppo. Ovviamente è una cosa importante e che succede anche nel contesto maschile, ma quando ero calciatore non era così fondamentale avere una buona relazione con i compagni di squadra: alla fine andare in campo e fare risultato era l’unica cosa che contava. A livello femminile, invece, non solo per le calciatrici è un aspetto importante, ma se non c’è il gruppo i risultati difficilmente arrivano. Un’altra cosa differente, ho notato, è relativa alla fiducia nel coach. Nel calcio maschile c’è sempre quel giocatore in una squadra che quando l’allenatore decide qualcosa, o spiega un concetto, pensa: “Sai cosa? Io lo farei in modo diverso”. C’è sempre qualcuno che dice: “No, secondo me l’allenatore sbaglia”. Nel calcio femminile, invece, se dimostri alle giocatrici che quello che stai proponendo ha senso, che può funzionare e vale la pena lavorarci, allora loro ti seguiranno, indipendentemente da tutto, andranno verso l’obiettivo fidandosi di te. Non è scontato. In una squadra magari ci sono trentacinque persone e non tutte giocano, non tutte viaggiano con la squadra, non tutte avranno le stesse opportunità; però, se tu sai creare un gruppo, per quella che è la mia esperienza, tutte le tue giocatrici saranno sempre pronte, sempre sul pezzo, tutti i giorni, in allenamento e in partita. Alla fine, se dovessi riassumere qual è il lavoro dell’allenatore direi che è un gestore di persone. Da questo punto di vista, la mia età mi aiuta molto, perché è vicina a quella delle giocatrici che alleno. Così come, forse, anche il fatto di essere ancora in una fase di transizione da calciatore ad allenatore. In fondo, ho smesso da poco di giocare e questo mi aiuta molto a relazionarmi con la squadra».

Anche in Texas, i risultati non tardano ad arrivare. Alla loro prima avventura in Division I, le Lions chiudono terze nella stagione regolare, qualificandosi per il 2022 Southland Soccer Tournament, i playoff della conference d’appartenenza, dove arrivano fino alla finale, a un passo dallo staccare il pass per la fase conclusiva del torneo NCAA, in cui giocarsi il titolo assoluto nazionale dei college americani. La numero 0 che difende la porta delle texane, Jen Peters, è nominata tra le migliori giocatrici del torneo. Dopo due anni da studente-atleta e quasi quattro da allenatore, nonché da studente-allenatore, oltre ad aver vissuto molte esperienze di vita e a essersi tolto non poche soddisfazioni nel calcio collegiale statunitense, Luca, coach Crivellari, è riuscito a costruirsi delle solide basi, accademiche e professionali, per proseguire in un vero e proprio percorso di vita.

At Texas A&M

«Ormai sono un paio d’anni che sono in Texas, dopo l’anno e mezzo in Arkansas. In pratica, sono quasi quattro anni che alleno nel mondo del calcio collegiale. È qualcosa di estremamente diverso rispetto alla carriera da allenatore che avrei potuto avere in Italia, dove se vuoi allenare, banalmente, devi fare i corsi Uefa. E se non hai giocato almeno dieci anni nei professionisti è veramente complicato arrivare su una panchina. Anche qui negli Stati Uniti ci sono tantissimi calciatori che poi diventano allenatore, ma un’opportunità viene sempre data, se dimostri di meritarla. In America, e non è una questione di calcio ma di sport, ci sono investimenti importanti. E le professionalità vengono pagate. In Italia, invece, a meno che tu non finisca nelle giovanili di qualche squadra professionista di alto livello, non puoi fare l’allenatore e vivere solo di quello».

Partire per il “nuovo mondo”, quello americano, del calcio collegiale statunitense, si è rivelata la scelta giusta. Prima che da un punto di vista sportivo e accademico, da un punto di vista personale.

«Quella di Yes We College è un’esperienza che ti apre un mondo e che ti aiuta a guardare le cose da un’altra prospettiva. D’altronde, secondo me, viaggiare ti arricchisce sempre. Partire come studente-atleta per gli Stati Uniti è qualcosa che consiglio e che credo sia da fare, perché alla fine porterai con te, per tutta la vita, tutte le amicizie, le connessioni e le esperienze che hai fatto, indipendentemente dal calcio».

Grazie agli anni passati sui campi di calcio, italiani e statunitensi, e a quelli trascorsi in panchina oltreoceano, cogliendo le opportunità che gli si sono presentate, Luca, coach Crivellari, è riuscito a fare della propria passione, il calcio, un lavoro. E ora è venuto il momento di porsi nuovi obiettivi.

«Il calcio è una passione. La mia passione. Non lo vedo come un lavoro, ma come un passatempo, perché mi diverte ed è quello che voglio continuare a fare. Mi considero fortunato: faccio un lavoro che mi appassiona. Se qualcuno mi chiedesse: “Torneresti in Italia?”, risponderei: “Certo”. Solo che non riuscirei a fare quello che faccio qui, è molto semplice. È per quello che voglio restare qui, negli Stati Uniti, e lavorare nel mondo del calcio, nei college e nei loro dipartimenti atletici. Mi piacerebbe tornare ad allenare in università importanti, che possano competere per un titolo nazionale, e magari tra cinque o dieci anni, dopo essermi tirato su le maniche e aver fatto la gavetta, diventare head coach nella squadra di un’università. Se devo essere sincero, non penso tanto ad entrare in un club professionistico, perché l’ambiente dell’università mi piace molto. E poi gli sport a livello collegiale hanno tanto seguito, molto di più rispetto al professionismo. Te ne rendi subito conto: quando fai parte della squadra di un’università rappresenti il tuo college e senti davvero il calore e il contatto delle persone e della comunità in cui vivi. Per questo il mio obiettivo è costruirmi una carriera e allenare a livello universitario nel calcio femminile, qui in America».

Articolo di Niki Figus

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