«Ho sempre avuto la fissa del calcio, sin da quando ero piccolo, sin da quando a quattro, cinque anni giocavo nel giardino di casa. Ho sempre avuto questa passione. Ho fatto le giovanili nella squadra del mio paese: oggi non esiste più, adesso si chiama Clivense, da dopo che è stata presa da Sergio Pellissier. Ho fatto qualche anno alla Sanbonifacese e alla Virtus Verona, poi sono tornato alla Clivense, che allora si chiamava San Martino Speme. Ho fatto giovanili e juniores, poi sono andato in prima squadra. Ho giocato qualche partita in Eccellenza, in seguito sono sceso in Promozione e dopo, quando lavoravo, sono andato in Prima categoria. E poi sono partito per gli Stati Uniti».
Michele Faropan ha una grande passione: il calcio. Veronese, classe 1999, sin da piccolo gioca sui campi di calcio della sua regione, il Veneto. Il suo presente si divide tra lavoro, università e l’immancabile pallone. Il suo futuro, invece, sono gli Stati Uniti.
«Ho scelto di partire con Yes We College perché in quel momento, oltre a giocare, stavo lavorando e studiavo all’università, Scienze motorie applicate al calcio. Avevo sentito parlare dell’opportunità di andare in America a studiare e a giocare a calcio e ne avevo parlato con un amico, a cui era stata proposta una borsa di studio. Mi sono detto: “Interessante! Potrebbe essere una buona esperienza… Perché non provare?”. Sono andato sul sito a informarmi e, ovviamente, ne ho parlato con i miei genitori, che mi hanno detto: “Noi non ti mettiamo nessun limite. Se è qualcosa che ti piace, falla”. Così ho deciso: “Ci provo, mi butto”. Ho fatto il provino a gennaio 2020, appena prima che esplodesse il Covid. Sono andato allo Showcase di Milano, alla due giorni c’era anche Yannick Bright. L’ambiente mi è piaciuto e Nicolò Baudo, il fondatore di Yes We College, mi ha fatto subito una buona impressione. Mi ha spiegato il progetto e mi ha detto: “Guarda, c’è questa possibilità. Adesso possiamo metterti in contatto con dei college, se vuoi veramente iniziare questo progetto”. Ho deciso di partire e poi, fatalità, è scoppiato il Covid, che ovviamente ha rallentato un po’ tutto il processo. Però ero convinto: “Voglio partire, voglio fare questa esperienza”. A gennaio 2021 avevo già tutte le carte pronte. E a marzo sono partito».
Dal Veneto agli Stati Uniti. Dalla piccola San Briccio, un migliaio di anime alle porte di Verona, a Lima, nell’Ohio. Ad attenderlo c’è un percorso da studente-atleta a University of Northwestern Ohio, dove studiare e indossare la maglia dei Racers, la squadra di calcio di UNOH, college che ospita quasi quattromila studenti, provenienti non solo da tutta America, ma da tutto il mondo.
«In Italia abitavo in un piccolo paese vicino a Verona, con appena mille abitanti. Ero in un posto molto tranquillo e, in generale, il fatto di essere in mezzo al nulla mi è sempre piaciuto: non riesco a stare nelle grandi città. Prima di partire per l’Ohio avevo visto dov’era il college e la città aveva 35mila abitanti: era davvero un posto decisamente tranquillo. Infatti, quando sono arrivato mi sono sentito come a casa. Anche se ovviamente all’inizio è stato un po’ strano. L’inglese lo sapevo, o meglio, lo capivo, ma facevo un po’ fatica a parlarlo, perché quando conversavo con gli altri pensavo alle parole in italiano e nella mia mente le traducevo in inglese… Ero un po’ macchinoso. Tuttavia, non è stato difficile inserirmi, anche perché il college era un ambiente molto internazionale: i miei compagni di squadra venivano da tutto il mondo; quindi, o erano oppure erano stati nella mia stessa situazione. Ad ogni modo, non mi sono mai sentito escluso; anzi, ogni tanto scherzavamo su questo e, comunque, tutti mi facevano sentire a casa. In pratica, sin da subito ho iniziato ad avere una seconda famiglia: adesso i miei migliori amici vengono da tutte le parti del mondo. Lucas, il mio migliore amico, che è stato il mio primo compagno di stanza, è argentino: oggi ci sentiamo tutti i giorni. Dopo che Lucas si è laureato, ho avuto un altro compagno di stanza, Bjarne, un ragazzo tedesco: anche lui è diventato uno dei miei migliori amici. È un’esperienza che ti permette di stringere dei legami che rimangono con te. A UNOH era veramente bello, anche perché passavi quasi tutto il tempo insieme agli altri all’interno del college, non essendoci molto attorno, a differenza di altre realtà. Nel campus c’erano dei complessi di case, con due piani: al primo vivevano otto persone e al secondo altre otto; eravamo in due per ogni camera, ognuna con il proprio bagno, e negli appartamenti c’erano spazi adeguati e tutto l’occorrente per ogni necessità. Vivevamo in una sorta di ‘villaggetto’, anche perché in questi appartamenti eravamo divisi per sport: ero con tutti i miei compagni di squadra, per vedersi bastava fare un metro dalla porta della mia stanza… È stato davvero bello. Vivere tutti insieme ti permette di conoscere nuove culture e ti aiuta a capire differenti punti di vista, ti fa crescere».
Michele non ci mette molto ad ambientarsi nella nuova realtà di University of Northwestern Ohio, anche perché il contesto in cui è collocato il campus gli ricorda, per certi versi, il suo paese d’infanzia. A essere molto differente, invece, è la quotidianità, poiché la vita da studente-atleta in America è molto diversa da quella di un calciatore-studente universitario in Italia.
«La mia vita quotidiana, in sostanza, era questa: svegliarmi, andare a lezione e poi andare all’allenamento al pomeriggio. Poi dal secondo anno ho iniziato a lavorare, dopo allenamento, dalle 17:00 alle 22:00. Era abbastanza impegnativo, ma comunque mi sono trovato molto bene. Rispetto all’Italia, l’università in America secondo me è un po’ più facile, ma la grande differenza è che al college ogni una o due settimane devi portare un compito, un paper o un essay, un elaborato che viene controllato dal professore affinché tu ti possa preparare all’esame. Se in Italia ti ‘auto-gestisci’ e, ad esempio, puoi scegliere di non fare niente per un mese per poi passare i due successivi a studiare, in America ogni due settimane devi fare una tesina o un saggio per prepararti all’esame finale. L’altra grande differenza, ovviamente, è che negli Stati Uniti hai la possibilità di praticare uno sport… Anzi, è proprio tramite lo sport che puoi studiare, grazie a una borsa di studio. In Italia invece sono due mondi separati: se le ore di allenamento e università non coincidono, devi scegliere tra studiare e giocare a calcio. In America non è così ed è possibile far coincidere sport e università».
Non ci vuole molto tempo nemmeno per ambientarsi nel mondo del soccer statunitense. Anche se ad alcune differenze è decisamente difficile abituarsi.
«Calcisticamente, l’esperienza è stata molto positiva, anche perché la squadra era forte e il livello molto competitivo. E c’erano alcuni giocatori che avrebbero potuto fare la differenza anche in Italia. Di diverso c’era che in America eravamo tutti giovani, mentre in Italia in categoria giocavano calciatori di differenti età. Un’altra grande differenza è che il calcio statunitense è estremamente fisico. E la preparazione prima della stagione ti ammazza. Il mio prestagionale consisteva in tre allenamenti al giorno: alle 6 del mattino, alle 3 del pomeriggio e alle 6 di sera. Volevo spararmi: mi svegliavo alle 5:15, 5:30 del mattino, perché praticamente vivevo di fianco al campo, e il mio compagno di stanza appena sentiva la sveglia voleva buttarmi il telefono fuori dalla finestra. La preseason l’ho odiata, anche perché d’estate in Ohio fa caldissimo, ci sono anche 30-35 gradi, mentre in inverno siamo arrivati anche a -20 gradi».
In quattro stagioni giocate nell’arco di tre anni, complice il rinvio dell’annata 2020 dettato dalla pandemia, con la maglia numero 12 dei Racers Michele Forapan colleziona 43 presenze, condite da un gol e un assist. Sin dal principio, è un punto di riferimento per il centrocampo dei bordeaux-grigi e per tutti i suoi compagni di squadra. Grazie all’agonismo e alla visione tattica che contraddistinguono il suo gioco, contribuisce a rendere la compagine dell’Ohio una delle forze più temibili della Wolverine-Hoosier Athletic Conference, tra i raggruppamenti regionali più competitivi del circuito calcistico universitario nazionale NAIA, la National Association of Intercollegiate Athletics. I Racers sono costantemente tra le migliori forze del loro raggruppamento e, dunque, della nazione; tuttavia, la squadra di UNOH arriva sempre a un passo dal completare quello che oltreoceano chiamano “The last mile”, l’ultimo miglio.
«In pratica, siamo sempre arrivati secondi. Siamo stati gli eterni secondi… La nostra conference era tosta, ma comunque siamo sempre andati ai Nazionali, ogni anno. La penultima stagione siamo arrivati fino alla fase finale del torneo e siamo usciti al secondo turno, perdendo contro Bethel University, che poi ha vinto il campionato».
Terminata brillantemente, sul campo e sui banchi collegiali, l’esperienza da studente-atleta a University of Northwestern Ohio, Michele è intenzionato a rimanere nel mondo del calcio, lasciando il terreno di gioco per accomodarsi in panchina, restando però sempre nella sua nuova casa, gli Stati Uniti.
«Mi sono laureato con un anno di anticipo, perché ho fatto più esami rispetto al mio piano di studi. Dopo la laurea, la mia intenzione era fare l’allenatore di calcio, così ho deciso di restare negli Stati Uniti, perché l’unica possibilità per continuare ad allenare a tempo pieno e non fare altri lavori era restare in America».
Il calcio, giocato e allenato, è la sua passione. E gli Stati Uniti, come noto, sono “the land of opportunity”, la terra delle opportunità: con impegno, una passione può diventare un percorso di vita.
«Il calcio è sempre stato la mia passione. Giocare mi è sempre piaciuto, però a un certo punto ho detto basta: non avevo più molta voglia. L’idea di fare l’allenatore però l’ho sempre avuta. Giocavo centrocampista centrale e mi piaceva studiare i movimenti dei giocatori e le tattiche delle squadre avversarie, mentre durante gli allenamenti prestavo sempre attenzione a ciò che facevamo, a come potevamo migliorare, a quali movimenti avremmo potuto fare. In realtà, è qualcosa che ho sempre avuto dentro, sin da piccolino, ho sempre cercato di aiutare i miei compagni… Gli dicevo: “Cerca di fare questo, prova a fare quello”. In pratica, crescendo allenare è diventato più stimolante che giocare. Già quando ero in Italia allenavo i ragazzini delle squadre in cui giocavo: è stata un’esperienza che mi ha aiutato a essere paziente e a capire come comportarmi, mi ha aiutato a comprendere come pormi con i giocatori e come adattare i vari allenamenti. Anche negli Stati Uniti ho partecipato a qualche summer camp, come assistente allenatore. Il mio coach a Ohio, mister Tyler Brock, mi ha sempre portato con lui: è molto stimato all’interno del circuito NAIA, per cui in estate aveva sempre molte opportunità, e io l’ho sempre seguito. Il coach e io abbiamo avuto sin da subito un ottimo rapporto. Quando sono partito per gli Stati Uniti avevo già vent’anni; quindi, ai Racers, dal primo giorno, ero tra i più ‘anziani’ in squadra. E mister Brock voleva persone ‘adulte’, che aiutassero i compagni di squadra ad ambientarsi. Lui mi ha sempre visto come un punto di riferimento, così come la squadra: anche se non ero il capitano, molti compagni mi venivano a chiedere aiuto e parlavamo delle varie situazioni in campo. E anche coach Tyler Brock, non che mi chiedesse aiuto, però ogni tanto mi diceva: “Cosa ne pensi di questo? Potremmo provare quest’altro…”. Mi è sempre piaciuto allenare: prima lo vedevo più come un hobby, ma da quando sono arrivato qui in America ho iniziato a vederlo come un lavoro».
Prima di laurearsi, Michele inizia a cercare un’occupazione negli Stati Uniti. L’obiettivo è quello di lavorare, come allenatore, nel mondo del soccer.
«Ad aprile 2023 ho iniziato a cercare lavoro. Mi sono detto: “Mi laureo a novembre. Mi devo mettere in moto, devo iniziare a carcere qualcosa”. Fin da subito ho cercato un’opportunità per diventare allenatore qui in America. E mi è venuta un’idea: “Vediamo se c’è qualche accademia italiana negli Stati Uniti”. Ho guardato e all’epoca c’era solo un’Inter Academy a Boston. Combinazione, io sono interista… Ho mandato il curriculum, gli è piaciuto e in un paio di settimane mi hanno risposto. Loro stavano per aprire una posizione da allenatore, appena prima che li contattassi: è stata una coincidenza assurda. E poi, fatalità, il direttore dell’accademia si era laureato nella mia stessa università, University of Northwestern Ohio. Non solo: il suo compagno di stanza era coach Kedar Roderick, il mio allenatore in seconda a UNOH. Incredibile! Mister Roderick ha messo una buona parola e d’estate sono andato a Boston per il summer camp, per vedere come lavoravano. Da lì è nato tutto. A novembre ho preso la macchina, ho guidato dodici ore dall’Ohio a Boston e a gennaio 2024 ho iniziato a lavorare lì».
Una passione, anzi due, quella per il calcio e quella per l’Inter, diventano così il suo nuovo lavoro: Michele Forapan è oggi Head Soccer Coach dell’Inter Academy MetroWest Boston, una scuola di calcio nel cuore del Massachusetts, affiliata alla società nerazzurra.
«In questo momento sto lavorando come allenatore all’Inter Academy di Boston. Abbiamo iniziato con sei squadre, un paio d’anni e mezzo fa, ora ne abbiamo dieci, con ragazzi nati tra il 2011 e il 2016 che giocano in un campionato locale. È un lavoro impegnativo e richiede tanto sacrificio, perché comunque sei occupato dal mattino fino alla sera, però mi piace, quindi non mi pesa troppo. L’Academy ha un accordo di sponsorizzazione con l’Inter, che oltre a provvedere a garantire nome e logo manda un allenatore per sei mesi all’anno negli Stati Uniti, per supervisionare il lavoro che viene fatto. Il nostro obiettivo ora è quello di espanderci, arrivando a sedici squadre a settembre 2024. Ci sono alcune academy che sono arrivate, dopo vent’anni, ad avere anche trecento squadre: noi puntiamo a quei livelli. Anche perché il calcio in America sta crescendo di popolarità e sempre più famiglie scelgono il soccer per i loro figli».
Gli Stati Uniti si dimostrano, ancora una volta, la terra delle opportunità. E lo sono a maggior ragione per chi cerca un futuro nel mondo del calcio.
«Non ho mai pensato di tornare in Italia, assolutamente, perché se tornassi non potrei fare quello che voglio fare, quello che sto facendo. Mi trovo molto bene qui e ci sono tantissime opportunità. In America il calcio sta esplodendo: negli ultimi quattro anni, da quando sono qui, il movimento calcistico è cresciuto, nella Major League Soccer ci sono sempre più investimenti e alcuni calciatori importanti sono venuti qui a giocare. Il calcio ha ancora tanto spazio per crescere negli Stati Uniti. E nei prossimi anni ci sarà un vero e proprio boom: tra poco c’è la Coppa America, il prossimo anno il Mondiale per club e nel 2026 ci saranno i Mondiali. Io la butto lì: da qui a trent’anni, secondo me, la nazionale statunitense avrà la chance di vincere un Mondiale. Ad ogni modo, per noi allenatori le possibilità e le opportunità saranno sempre di più».
Il presente di coach Michele Forapan è l’Inter Academy di Boston. Quanto al futuro, l’obiettivo è quello di continuare a lavorare per poi sedersi sulla panchina di una squadra di calcio universitaria.
«Al momento voglio continuare il mio lavoro qui all’Inter Academy, per far crescere questo club. Mi piacerebbe che l’Academy di Boston diventasse abbastanza rinomata da diventare un punto di riferimento anche per l’Inter a Milano: alcune accademie con sede all’estero vengono invitate in Italia a fare dei viaggi e mi piacerebbe dare questa opportunità ai nostri ragazzi. Guardando al futuro, invece, mi piacerebbe diventare l’allenatore di una squadra di un’università. È questo il mio obiettivo, anche se adesso ovviamente è giusto che faccia ancora esperienza».
Dopo un percorso calcistico in Italia, nel Veronese, cogliendo l’opportunità presentatasi con Yes We College, Michele è riuscito a costruirsi un presente negli Stati Uniti, vivendo un’esperienza da studente-atleta che gli ha consentito di trasformare la sua più grande passione, il calcio, in un lavoro, diventando allenatore. Ed è solamente l’inizio di un nuovo percorso di vita.
«Yes We College è un’esperienza che consiglio, perché mi ha aperto molte porte. Se fossi rimasto in Italia, a fare una vita ‘normale’, per così dire, non avrei mai potuto avere certe opportunità di lavoro, non avrei mai potuto costruire quelle connessioni che un giorno potranno magari regalarmi nuove opportunità, anche in altre parti del mondo, e non avrei mai avuto l’occasione di conoscere persone e culture diverse».
Articolo di Niki Figus